giovedì 6 ottobre 2011

NON PAGHIAMO NOI IL LORO DEBITO!

Verso la manifestazione nazionale del 15 ottore

Il debito pubblico oggi è il pretesto per giustificare un assalto senza precedenti al welfare europeo, ai diritti dei lavoratori, alla spesa sociale. Come avvenne all’inizio degli anni ‘80 nei confronti dei paesi del Sud del mondo che furono oggetto di “piani di aggiustamento strutturale” da parte del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale con uno spaventoso trasferimento di risorse dai popoli più poveri ai forzieri delle banche più ricche del mondo capitalista, anche oggi si sta realizzando un meccanismo analogo. Lo scoppio della crisi nel 2007-2008 ha trasferito un enorme debito privato ai debiti pubblici e oggi il conto viene fatto pagare al pubblico impiego, ai lavoratori, ai servizi sociali, ai diritti del lavoro. Il caso della manovra di agosto del governo Berlusconi è più che esplicito. Oggi i piani di aggiustamento strutturale in Europa sono portati avanti da una nuova “troika”: il Fondo monetario con l’ausilio determinante di Commissione europea e Banca centrale europea propongono dappertutto, in Grecia come in Spagna, in Portogallo come in Italia, le stesse ricette. Riduzione dei salari pubblici, licenziamenti o blocco del turn over, allungamento dell’età pensionistica, privatizzazioni.

Il motivo, chiaramente, è sempre lo stesso: non è possibile sostenere un deficit crescente del bilancio statale né un peso eccessivo dell’indebitamento pubblico. Eppure...
la dilatazione dei debiti è stata una precisa scelta delle politiche compiute in Europa negli ultimi 10-15 anni da tutti i governi, fossero di destra o di sinistra. Gli anni 1990-2000 hanno visto in Europa l’applicazione di politiche neoliberiste basate su ipotesi di riduzione della pressione fiscale con la diminuzione delle tasse verso gli strati più alti della società o verso le società private. Nel 2007, con la prima finanziaria del secondo governo Prodi l’Ires sulle imprese vide ridurre la propria aliquota dal 33 al 28% mentre l’Irap scendeva sotto il 4%. E se il governo Berlusconi nel 2005 ridusse l’aliquota Irpef più alta dal 45 al 43% il successivo governo di centrosinistra lasciò inalterata questa situazione; mentre con la riduzione del cuneo fiscale si regalavano in modo permanente 7 miliardi all’anno a imprese, banche e assicurazioni. Contestualmente sono aumentate le imposte indirette che si scaricano direttamente sui redditi fissi – si pensi a benzina o bollette – nonché un aumento generalizzato e costante del costo della vita.

A partire dal 2008 il salvataggio di una serie di banche sull’orlo del fallimento, in particolare nei paesi del Nord, meno in Italia, ha scaricato sui conti pubblici il costo delle grandi speculazioni finanziarie che hanno garantito profitti record a banche e società finanziarie. Questo dilatarsi del debito sovrano dei principali paesi occidentali ha ridotto le distanze con quei debiti, come quello italiano o giapponese, che da tempo rappresentavano una grandezza preoccupante. In Italia sono state salvate meno banche e c'è stato un intervento ridotto nell'economia reale, a causa dei già disastrati conti pubblici, ma ciò non ha impedito il sovrapporsi dei problemi contingenti causati dalla crisi a quelli strutturali. La tendenza generale a ridurre le tasse per imprese e redditi alti si aggiunge a una modesta pressione fiscale che ha radici lontane. Si pensi che già nel 1970 la pressione fiscale italiana in proporzione al Pil era inferiore a quella tedesca e francese di ben 10 punti. Nei cinque anni successivi la pressione fiscale in Italia rimaneva stazionaria, mentre nei due principali paesi europei aumentava per far fronte al crescere della spesa pubblica, approfondendo queste differenze. Nel 1975 in Francia e Germania, nonostante il maggior impegno di spesa profuso, si aveva un disavanzo primario pari rispettivamente al 1.2 e 4.2% del Pil, mentre in Italia saliva all'8.1. Quando si parla del debito che ereditiamo, come fosse un accidente che è capitato non si considera quali siano stati i soggetti che in particolare hanno beneficiato di queste politiche.

Il debito pubblico è la stratificazione delle politiche seguite finora, la leva di una politica economica che da oltre trent’anni sposta reddito dalle classi sociali più basse verso l’alto. Tale processo si è ulteriormente approfondito nel nuovo secolo. Tra il 2002 e il 2007 gli stipendi reggono a malapena l’aumento dell’inflazione mentre i profitti delle 1400 imprese più grandi crescono dell’89,5% e quelli di tutte le grandi imprese del 63,5%. Lo scarto è impressionante e non può essere sottaciuto quando si parla di debito: debito di chi verso chi? E chi è davvero in credito? In questo senso ha ragione il Comitato per l’annullamento del debito del terzo mondo quando chiede l’annullamento della parte illegittima del debito, cioè quello realizzato per sostenere i profitti, per garantire la speculazione delle grandi banche e per sorreggere un’economia capitalistica in crisi di sbocchi, e quindi di margini di profitto, e bisognosa di una bolla finanziaria in grado di garantire l’attività.

Il punto è contestare la legittimità di un debito contratto per applicare politiche sociali ingiuste, in violazione dei diritti economici, sociali, culturali e civili dei popoli. Nei paesi europei la scelta di indebitarsi per favorire le classi più agiate e il capitalismo più sfrenato è del tutto evidente: salvataggio delle banche e riduzione delle aliquote per i più ricchi e, per quanto riguarda l’Italia, il vero e proprio favoreggiamento di un’evasione fiscale che ingrassa i profitti delle grandi imprese e i redditi più alti. I passaggi per arrivare al non pagamento del debito o al ripudio della sua parte illegittima non sono agevoli ma sono possibili. In Grecia la proposta ha avuto legittimità fin dentro il Parlamento e sull’onda della crisi è nato un Comitato per l’annullamento del debito che ha raccolto il consenso dell’intera sinistra radicale. Dai settori più moderati viene poi l’accusa che una tale misura potrebbe costituire un “effetto boomerang” ritorcendosi contro lo stesso funzionamento dello Stato, il pagamento degli stipendi, il mantenimento dei servizi pubblici, la credibilità dello Stato stesso.

Ma per affrontare la crisi del debito sovrano sono necessari approfondimenti e politiche articolate. La natura del debito appare difficile da definire nei suoi risvolti sociali. Esiste una opacità del debito che impedisce di comprendere con precisione il profilo dei creditori dello Stato. Per questo un primo passaggio è quello di formare una Commissione indipendente che analizzi il debito, la sua composizione e quale parte è legittima e quale no. Esiste già ora la possibilità di delimitare la natura del debito per approssimazione, cioè per gli indizi che abbiamo. Ad esempio, dai dati della Banca d’Italia dello scorso agosto risulta chiaro che quasi il 50% del debito pubblico italiano è nelle mani di investitori stranieri. Questo dato è piuttosto recente, in quanto ancora nel 1991 i detentori domestici erano pari al 94%, e ci parla di una tendenza all'invadenza del capitalismo globale nel ricercare profittabilità su scala sovranazionale indipendentemente dalle ricadute in termini sociali che si danno. A ciò si aggiunga che circa il 25% dell'attuale debito è delle banche (straniere e autoctone). A complicare ulteriormente il quadro c'è quella quota di risparmio coatto rappresentato dai fondi pensione che obbligano i lavoratori a far convivere la duplice dimensione di occupato e investitore. Detto ciò possiamo affermare che famiglie, imprese e altri settori controllano appena 1/4 del debito. Vanno considerate, inoltre, le modeste quote di risparmio che è stato in grado di consolidare il lavoro in questa fase di depressione salariale. Nel totale del risparmio che si è andato affermando in questi anni solo il 10% proviene dal lavoro dipendente. Per non parlare dei livelli di risparmio ottenuti nel mondo del lavoro parasubordinato, autonomo e tra i disoccupati. A scontare una decisione drastica, dunque, sarebbero innanzitutto le banche e i grandi investitori istituzionali e non le famiglie. Il costo del debito, per l’Italia è destinato tra l’altro ad aumentare in maniera esponenziale. Secondo la nota di aggiornamento del Ministero dell’Economia presentata il 22 settembre, la spesa per interessi sul debito salirà dai 70 miliardi del 2010 ai 94 miliardi del 2014. Ogni mega-manovra che sarà fatta non intaccherà nemmeno questa mole di costo improduttivo finalizzato solo a ingrassare la rendita.

Si tratta quindi di decifrare chi possiede realmente titoli di Stato, per quale ragione e in base a quali meccanismi li ha acquistati. E’ del tutto noto, ad esempio, che in questi mesi le banche si sono indebitate presso la Bce al tasso di interesse dell’1% per acquistare titoli che rendono il 4-5% o, nel caso della Grecia, il 15-20 %. Del resto è il meccanismo che in passato ha permesso ai “titoli spazzatura” di girare indisturbati nei circuiti della finanza mondiale senza che nessuno avesse nulla da dire. Esistono poi esempi, sia pure limitati, di ripudio del debito. Il presidente dell’Ecuador, Rafael Correa, nel 2007 ha realizzato una Commissione di esperti per un audit sul debito e dopo 14 mesi di lavoro, in cui è stato passato in rassegna il debito contratto negli ultimi 30anni, la commissione ha deciso che una gran parte di quello era illegittimo. Nel 2008 il governo ha deciso di non pagare il debito in scadenza nel 2012 e quello del 2030, avendo la meglio, dopo 8 mesi di braccio di ferro, sulle grandi banche nordamericane. L’Ecuador ha così potuto risparmiare complessivamente 7 miliardi di dollari da spendere in sanità, scuola, sussidi sociali. Anche l’Islanda, sull’onda di una grande sollevazione popolare, ha sospeso il pagamento del debito condizionandolo alle proprie “capacità di pagamento”. Ma, pur rinviando il problema, ha evitato l’adozione di misure sociali disastrose.

La ristrutturazione del debito è una operazione che per risultare efficace non può essere realizzata nel vuoto. Oltre a un problema dei soggetti politici e sociali che la determinano si pone un problema di tenuta successiva, di come evitare la fuga di risorse, cioè di non scivolare nella cosiddetta inaffidabilità. Insolvenza del debito sovrano a questo proposito non significa semplicemente ripudiare indistintamente e drasticamente tutto il debito, ma trovare delle forme per la tutele del piccolo risparmio, procrastinare parte del debito, promuovere nuove forme di credito da parte di quei soggetti a cui non viene annullata la propria quota. Infine si tratta anche di accompagnare questa operazione con un processo di nazionalizzazione di banche e assicurazioni, creando nuovamente un segmento pubblico in quel settore tale da costruire una regia collettiva nelle logiche del credito sia privato sia pubblico, in grado nell'immediato di sostituire con risorse interne il prevedibile mancato investimento di operatori internazionali. Sul non pagamento del debito si può impostare un’altra politica economica, alternativa a quella attuale che ci sta conducendo al fallimento e alla disperazione sociale. Non pagare il debito significa contestare il dominio della finanza e della speculazione, l’intreccio perverso tra profitto e rendita. Significa reimpostare la finanza e il credito provvedendo alla nazionalizzazione di grandi banche, sotto controllo di lavoratori e utenti, non certo di partiti e burocrati, per un utilizzo del credito in direzione dei bisogni sociali e produttivi. Significa darsi lo strumento per rivedere la politica delle entrate e delle spese, spezzando la complicità con l’evasione fiscale e rilanciando servizi e investimenti sociali: sanità, scuola, trasporti, informazione, ecologia contro sprechi, grandi opere, subordinazione al profitto, spese militari. Significa impostare una riforma fiscale che faccia pagare di più i redditi più alti e di meno, molto di meno, chi riesce appena a sopravvivere. Una riforma fiscale fortemente progressiva, con poche e chiarissime agevolazioni fiscali per il lavoro dipendente, in grado di cumulare la tassazione dei grandi redditi con la proprietà e quindi il patrimonio, la rendita, la speculazione.

Sinistra Critica – Organizzazione per la Sinistra Anticapitalista

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